II.

Il periodo ferrarese

Il Monti entrava nel 1766, a dodici anni, nel seminario di Faenza, dopo aver compiuto i primi studi a Fusignano sotto la guida di alcuni sacerdoti e aver ricevuto in casa, nel seno di una grossa famiglia patriarcale di possidenti di terre, un’educazione nettamente devota e ispirata al riconoscimento dell’autorità in ogni sua forma, e del dovere per ogni membro della famiglia di contribuire con un lavoro ben redditizio all’accrescimento della forza economica comune. Già in quel primo cerchio di relazioni familiari (in cui d’altra parte il fanciullo poteva esercitare anche certe qualità di bontà e generosità che pur gli erano naturali[1]), il Monti veniva facilmente rafforzando una tendenza poco combattiva e quasi ingenuamente utilitaristica e conformista che trovava sostanziale incoraggiamento (prima che nell’ambiente papalino ferrarese e nell’«aula romana» di cui tanto parlò il Foscolo) nel chiuso e retrivo clima del Seminario di Faenza in cui dominava una stanca e attardata cultura umanistico-retorica di tipo gesuitico, incentrata naturalmente nello studio del latino (si ricordino le accuse del Foscolo e del Gioberti contro i gesuiti fautori di una educazione formalistica e retorica per allontanare i giovani dall’interesse vivo della realtà presente e la satira, già all’inizio del Settecento, del Gigli contro l’educazione latina, nel Collegio petroniano delle balie latine), con tale predominio di quella lingua che lo Strocchi, un condiscepolo del Monti, narra nelle sue Memorie come a Faenza non si studiasse che latino e che Dante non vi era conosciuto neppur di nome, sostituito semmai dal Frugoni (e Lorenzo da Ponte, il famoso librettista di Mozart, nelle sue celebri Memorie, ricorda che, negli stessi anni, nel seminario di Ceneda i seminaristi erano in grado di scrivere un’elegia in latino, ma non una decente lettera in italiano).

E nello stesso latino la preferenza era naturalmente per Cicerone, in una tendenza allo sviluppo dell’eloquenza che (a suo modo confortata anche dallo studio di Virgilio nei suoi aspetti piú eloquenti: e il Monti lo imparò tutto a memoria facendone sin d’allora una riserva essenziale di modi stilistici e di immagini che frutteranno sin nel periodo tardo della Feroniade) appare assai significativo nell’educazione del Monti, a cui d’altra parte quell’eduacazione scolastica non forniva alcuna idea della nuova cultura illuministica con i suoi essenziali elementi di coscienza civile, di spirito razionalistico e innovatore.

Molto Cicerone e Virgilio e molto Frugoni specie nella sua maniera grandiosa e falsamente storica, appoggiata ad una lettura della Bibbia come miniera di immagini «sublimi» ed essa stessa mediata nel gusto frugoniano degli insegnanti, come l’abate Contoli, che apparteneva al cospicuo gruppo dei frugoniani romagnoli, capeggiati dal Fusconi, i cui esempi poetici furono appunto molto ammirati e imitati dal Monti seminarista nelle sue prime esercitazioni in versi italiani.

Quelle esercitazioni lette nelle «accademie» annuali del Seminario (in cui su di un tema religioso, cristiano o biblico i migliori scolari recitavano componimenti in latino e in italiano con traduzioni latine degli stessi componimenti italiani) ci mostrano un Monti principiante all’insegna dell’eclettismo frugoniano nelle sue maniere di poesia grandiosa e religiosa e quindi con una particolare abbondanza di impeti immaginosi, in cui una tendenza nativa del Monti si combinava con lo stimolo di quella scuola non controbilanciata in lui da quegli esempi di concisione e perspicuitas che altrove (specie negli ambienti classicistici di Modena e Reggio) dominavano nel culto di Orazio e nell’incontro di classicismo e di illuminismo.

Già in una parafrasi delle parole di Giacobbe morente (che il Carducci studiò nel suo articolo sul Monti principiante[2]) e meglio in una cantica Betulia liberata (che era il pezzo centrale dell’«accademia» del 1770, per cui il Monti scrisse ben sette dei venticinque componimenti recitati), si possono ben cogliere i caratteri tipici di un incontro fra certe tendenze naturali del Monti e i modi frugoniani, con chiari presentimenti della maniera delle Visioni: gusto scenografico e spettacolare (e sin d’ora si stia attenti a precisare come, piú che di tendenza «barocca» senz’altro, si debba parlare di una tendenza maturata nella educazione frugoniana, nella particolare linea «grandiosa» settecentesca che si svolse anche nel periodo arcadico e postarcadico), gusto dell’immagine efficace (che qui giunge al ridicolo, come nel verso: «al grande colpo[3] istupidí natura»), espansione di movimenti abbondanti e mal contenuti in misure brevi (donde il particolare impaccio di questo primo Monti nei sonetti) con la netta tendenza ad amplificare i modelli, come avviene anche nel componimento in esametri latini che proponeva il tema dell’accademia e in cui i versi della protasi dell’Eneide sono ripresi e svolti in una sequenza lunghissima e con una pienezza eloquente di tipo ciceroniano.

Cosa c’era oltre questa precoce abilità di versificazione eloquente, di questa sincera tensione all’immagine del giovanissimo Monti? Una confusa irrequietezza che lo spinse in un primo tempo, sui sedici anni, a prospettarsi una vocazione monastica e che poi all’improvviso lo fece decidere invece ad abbandonare ogni vocazione religiosa, a lasciare il seminario e a passare a Ferrara a studiarvi prima legge, poi medicina, per darsi in fine decisamente ai soli studi letterari, inizialmente coltivati contro il volere del padre e dei fratelli maggiori e conciliati, alla meno peggio, con la preparazione a professioni piú lucrose.

Si tratta inizialmente di un’attività dilettantesca e al massimo artigianale senza precisa partecipazione sentimentale e con la consapevolezza spavalda di un’abilità buona a soddisfare le piú diverse richieste dei committenti.

Parte un confessore di monache e il Monti scrive all’amico Ferri che a lui «è toccato di piangere in un sonetto la sua partenza a nome delle monache»[4], e all’abate Bertoldi, che gli aveva chiesto un sonetto per la festa di S. Nicolò, ne invia due a scelta, diversamente atteggiati, pur affermando di non conoscere nulla della vita di quel santo[5].

E sempre in una lettera del ’74 scrive: «Servirò e canterò per chi mi comanda»[6], mettendo tutta la sua preoccupazione nell’acquisizione di una tecnica metrica e di un lessico e di una sintassi sicuri, pronto a riscrivere i suoi sonetti e a sottoporli alle revisioni formali dei suoi antichi maestri faentini e dei nuovi amici ferraresi o forestieri in un cerchio di amicizie letterarie che il giovane letterato, attento ad aggiornare la sua esperienza e insieme a farsi conoscere e a procurarsi utili relazioni, amplia continuamente, prima nella zona emiliana, poi in tutto lo Stato pontificio e a Roma, da cui nel 1775 gli giunge la lettera di nomina a pastore arcade (con lo pseudonimo di Saturniano Autonide) da parte del custode generale, l’abate Pizzi. Riconoscimento, quest’ultimo, della rinomanza poetica raggiunta con la sua prima attività di scrittore di sonetti d’occasione, specie di genere devoto ed encomiastico, nella maniera frugoniano-biblica in cui il Monti si era prima formato a Faenza e che rimaneva quella per lui piú facile, malgrado i tentativi che intorno al ’75 aveva iniziato per farsi la mano anche ad altre maniere del tempo, specie in relazione ai suoi nuovi contatti con ambienti letterari diversi.

Ed ecco appunto il tentativo di svolgere un’esperienza di poesia galante e briosa (piú adatta, fra l’altro, a quei salotti di dame che il giovane frequentava a Ferrara alternandoli con le sacrestie e le sale degli alti prelati, a cui dedicava le sue poesie di intonazione seria e devota) sul modello anzitutto dei celebri Amori del Savioli, in cui esemplarmente si univano agli occhi dei contemporanei una ispirazione galante e raffinatamente edonistica e un gusto di rappresentazione miniaturistica e visivamente perspicua, al segno di una imitazione sapiente della concisione oraziana e in una gara con il disegno prezioso di derivazione ercolanense e pompeiana.

Ma era un tentativo particolarmente difficile per il giovane Monti, la cui tendenza iniziale lo portava, entro la stessa zona del classicismo emiliano (la zona cosí bene studiata per la prima volta dal Carducci), piú verso il classicismo venato di frugonianesimo di Parma (in cui altri vedeva il pericolo di un risorgente barocco per opera del Mazza e del Rezzonico) che non verso il classicismo piú sobrio e miniaturistico, oraziano e conciso della Bologna savioliana o della piccola scuola estense del Cerretti e del Cassoli[7].

E proprio in alcune poesie di intonazione scherzosa e galante del ’76-77 si può osservare la particolare difficoltà e i modi particolari con cui il Monti si muoveva su questa strada, la difficoltà dei suoi primi contatti con il gusto neoclassico, specie nei suoi aspetti meno grandiosi, nella prevalenza del disegno sul colore, dell’immagine nitida, elegante e concisa sull’onda immaginosa e sonora a cui naturalmente, e per la sua prima educazione, il Monti era piú portato.

Si prenda una poesia, Per una solenne mascherata del carnevale 1776[8], e si vedrà subito come pure nella direzione scherzosa prevalga il ricorso – anche se per utilizzazione ironica – al «fare grande», tra echi del Frugoni e del Guidi, alle immagini tese e sonanti («Quando coi lauri su la fronte invitta / la bellicosa gioventú di Roma / traeva d’Asia e d’Affrica sconfitta / l’alta superbia incatenata e doma; / correan ad annunciar trombe guerriere, / il terror delle genti e la ruina, / e cariche di lance e di bandiere / gemean le rote su la via latina»), e come invece, quando si passa alla diretta cronaca poetica della festa contemporanea nei suoi aspetti piú galanti, il testo si faccia piú impacciato e incerto, mancando del tutto ai suoi scopi di risultato di eleganza e sorriso.

Su questo terreno il Monti, che pure piú tardi svilupperà indubbie disposizioni di brio comico e piacevole (che si realizzeranno superbamente specie a contatto con il testo della Pucelle volterriana), ma che realmente è lontano in genere dalle forme piú sottili dell’eleganza settecentesca, con un senso di comicità e di umorismo semmai piú marcato ed aperto, non privo di punte quasi grossolane[9], si muoveva con difficoltà, specialmente proprio in rapporto con il preciso testo savioliano a cui pure – proprio perché rappresentava la forma piú esemplare di quel gusto – egli voleva avvicinarsi. In realtà, in queste prime esercitazioni non gli riuscí che di imitare e quasi riprender di peso in un’ode Alla fanciulla inferma (la rifiutò piú tardi come vero e proprio furto) un’ode del Savioli, la XVIII degli Amori, pur rivelando chiaramente, appena si discostava dal modello nelle sue forme precise, o l’impaccio di una riproduzione autonoma di moduli tipici della concisione savioliana (cosí, per dire medicine disgustose, il Monti dirà: «le nauseate polveri», cercando di imitare l’aggettivazione sensisticamente compendiosa e classicheggiante del Savioli) o la significativa riluttanza a chiudere nelle strette misure, nel ritmo breve e monotono delle strofette savioliane la sua tendenza ad una sonorità piú abbondante e colorita; come il suo gusto di immagini complesse e a crescendo mal si accordava con le strofette concluse ad unica immagine (scenetta-strofetta) dominanti nella poesia del Savioli.

Sicché, nella linea di una poesia galante, che si accompagna (nella ricerca montiana di ampliare la sua disponibilità poetica, il raggio della sua abilità espressiva), in questi anni ferraresi, alla linea delle poesie grandiose delle Visioni (piú congeniali all’educazione e alla tendenza piú istintiva del Monti), il Monti ripiega presto dal tentativo di precisa fedeltà al modello savioliano su piú facili e adatti compromessi fra odicine di tipo savioliano e canzonette o poemetti di ascendenza frugoniana-chiabreresca, in cui gli riesce piú agevole dar vita alla sua immaginosità piú ricca e meno nitida e concisa, al gusto del suo orecchio piú disposto (si potrebbe dire indicando anche quanto di nuovo si può avvertire sin d’ora in certe disposizioni del Monti) ad un esercizio di pianoforte, con uso intenso del pedale e con la ricerca di una musica colorita e mossa, piú che alla musica secca ed elegantemente nitida da clavicembalo settecentesco. Caratteristico in tal senso il Poemetto anacreontico, che segue all’odicina di pura imitazione savioliana e che in forme prolisse, seppur con una certa ricerca di concisione entro le singole immagini, sviluppa temi galanti e piacevoli non verso una conclusa rappresentazione quanto verso una trama di immagini e di scene, di colloqui e di descrizioni, piú libera e divagante, con parti piacevolmente discorsive e narrative. E anche quando in alcune canzonette-odicine per la contessa Cicognari (una delle sue protettrici ferraresi, prima della marchesa Trotti-Bevilacqua) il Monti ritorna alla strofetta savioliana, modificherà in quella il rapporto dei versi (in quella savioliana un verso sdrucciolo era seguito da uno piano che ne fermava cosí il ritmo piú rapido, e il Monti invece allinea allo sdrucciolo uno tronco, ottenendo un piú forte colorito sonoro), romperà spesso la separazione fra strofe e strofe in un discorso poetico piú ampio e diluito e adatto a certe possibilità vagamente narrative piú realistiche e familiari rispetto al tono aristocratico delle brevi narrazioni-rappresentazioni savioliane, tutte nobilitate dalle immaginette mitologiche e dal riferimento a un mondo di superiore eleganza.

Possibilità narrative che particolarmente colpiscono in un componimento del 1778, il Nuovo amore (per il quale, in una lettera al Vannetti, il Monti parlava di una «potentissima passione», aggiungendo però: «alla quale almeno una volta all’anno è soggetto il mio temperamento»), componimento leggero e piacevole e, rispetto all’elegia classicistica settecentesca, tanto piú aperto e affabile.

Come si può vedere dalla lettura di qualche passo (l’introduzione di Amore nel monastero e poi l’incontro del poeta con la donna amata, un’educanda) che, pure tra forme piú sciatte e approssimative, ha una sua sciolta disinvoltura, un’efficacia narrativa e scherzosa notevole su questa strada in cui il Monti riesce piú all’efficacia, appunto, al piacevole e al narrativo, che non alla eleganza e alla conclusa forma classicistica.

Là ’ve d’acque onusto e grosso

il Lamon col corno incalza

il bel ponte che sul dosso

le due torri al cielo innalza,

entro un chiostro di ciarliere

solitarie monachelle,

ch’ognor stan su l’uscio a bere

del bel mondo le novelle,

cheto cheto Amor celosse

meditando un tradimento:

né stupir che ardito ei fosse

d’appiattarsi colà drento.

Anche in mezzo a sacre mura

ei di freccia a trar si pone,

né si piglia piú paura

di salteri e di corone.

Veli e bende spesso assetta

alle vergini romite,

ché non son moda e toletta

or dai chiostri piú sbandite,

Sta lontan dalle vegliarde

che lo guardano in cagnesco;

ma nel fianco investe ed arde

quelle poi ch’han volto fresco.

Ad ognuna egli provvede

qualche amabile profano:

mette lor, se l’uopo il chiede,

penna e carta nella mano.

Di piacer con lor favella,

di diletti e vanità

invocando invan la bella

già perduta libertà.

Fra li salmi e le novene

temerario il naso ficca,

ed a tutte su le schiene

la tristezza e il tedio appicca.

Va con esse, al letto, e dorme

dolci sonni lusinghieri,

poi scompiglia in varie forme

i pudichi lor pensieri,

che languenti e smorti in faccia

fuggon via, quai calabroni

che il villan col foco scaccia

dagli antichi covaccioni...

E ancor piú libero in una sua intonazione di scherzo discorsivo e narrativo, di comicità piú efficace che sottile (e il Monti è un po’ sempre lontano dalla grazia edonistica piú elegante di certa poesia settecentesca come dal disegno musicale nitido e preciso di un Metastasio), egli si mostra naturalmente, in questi primi anni, in quel “genere” di “capitoli” di origine bernesca, che, del resto, nell’ambiente ferrarese, era stato autorevolmente coltivato dallo stesso Minzoni, il celebre oratore sacro e autore di sonetti grandiosi con riprese bibliche e dantesche, che ebbe notevole influenza, insieme all’altro poeta ferrarese, il Varano, sul giovane Monti.

Questi, come piú liberamente nei Capitoli (ad esempio, quello sul prender moglie, che in parte plagia un capitolo del Minzoni, e, meglio, quello assai piacevole alla Bevilacqua sul proprio noioso soggiorno estivo a Fusignano[10]) esprime una sua tendenza discorsivo-narrativa scherzosa e comica, che trovava maggiore difficoltà (e comunque esiti caratteristici in forme piú mosse, piú colorite ed efficaci, anche se meno eleganti) entro gli schemi dei modelli della poesia erotica ed edonistica di tipo savioliano e classicistico, rococò, cosí, tanto piú coerentemente ad una spinta fondamentale della sua immaginazione e alle condizioni della sua prima educazione (base frugoniana ora rafforzata dalle maniere spettacolari, falsamente plastiche e drammatiche del Minzoni e da quella «visionaria» del Varano), si svolge sulla linea della poesia religiosa e «sublime».

Su questa direzione, che a suo modo culminerà nella Bassvilliana e che indubbiamente rappresenta insieme una tendenza e una tentazione della immaginazione montiana (legata com’è al suo istintivo bisogno di immagine espansa ed efficace che facilmente decade in un gusto scenografico e spettacolare dell’immaginoso e del sonoro, privi di una vera giustificazione poetica), il giovane Monti poteva utilizzare piú coerentemente il frutto delle sue primissime esperienze faentine rinforzandole anzitutto con l’acquisto della maniera eloquentemente plastica e profetica del Minzoni (esaltato nientemeno al suo tempo – in quell’epoca ricca di autoinganni e di esaltazioni che tendevano a soddisfare la sete ambigua di grande poesia – come rinnovatore di Dante e di Michelangelo, magari con l’aggiunta della fantasia dell’Ariosto!), del suo modo di costruire falsamente muscoloso, del suo linguaggio poco curante di purezza e di eleganza e piuttosto volto all’effetto drammatico e scenografico (con quel che di sciatto e approssimativo che tanto si risente nel Monti principiante e che a volte in lui riaffiora – tra difficoltà di compiti espressivi troppo rischiosi e un certo istinto piú di efficacia che di eleganza – anche in opere della maturità, specie dove meno operi in lui l’essenziale correzione del piú sicuro neoclassicismo).

D’altra parte, accanto a quella scuola di manierismo pseudomichelangiolesco, scuola di gesti e atteggiamenti muscolosi e spettacolari, le tendenze al grandioso del giovane Monti venivano stimolate proprio nel loro carattere di abbondanza e di sontuosità immaginosa e sonora dalla scuola del visionarismo del Varano (e il Monti piú tardi riconobbe la sua formazione piú importante appunto nella lettura delle Visioni sacre e morali del solitario aristocratico conservatore e devoto), che offriva al giovane apprendista modelli di costruzioni aperte, prolisse, adatte allo scatenamento di una immaginazione esuberante, appoggiate a sequenze di scene grandiose e turbate, nel gusto di un’eccitazione visivo-fantastica. Questa, pur nel disordine e nella farragine di una ispirazione retorica e disorganica, corrispondeva nel Varano ad una strana irrequietezza fra spirituale e sensuale che dà a certi passi delle Visioni (e proprio delle piú truci e sconvolte, come quelle della peste di Messina e del terremoto di Lisbona) un certo interesse di equivoco anticipo preromantico (rafforzato dalle posizioni varaniane antiilluministiche, antimitologiche, anticlassicistiche), ma nel giovane Monti, che veniva formandosi soprattutto un’abilità, una tecnica poetica, non agivano tanto questi elementi (come nel caso del Minzoni l’indubbia serietà religiosa che indusse quel prelato a rifiutare ogni sottomissione ai governanti francesi a Ferrara), quanto precisi stimoli letterari e formali, moduli di immagine, e quella poetica del «vedere» e «far vedere» che in lui prese uno spicco tanto maggiore in relazione ad un piú forte impeto di emozione e di esaltazione nella creazione di scene spettacolari, di cieli turbati o solenni, con una componente piú genuina di intimo stupore che si svilupperà attraverso i momenti piú alti della poesia montiana fino a certe scene efficacissime della versione omerica o della Feroniade dove quell’emozione sarà poi piú pacata e fortemente controllata, divenuta piú pensosa ed assorta.

Ciò che nel Varano era piú inquieto, il gusto del macabro e dell’orrido, legato poi ad una pietà religiosa quasi morbosa e fanatica, non agisce effettivamente sul Monti che è volto piú istintivamente al gusto grandioso in sé e per sé, e che nello schema delle «visioni» (che poi lo conduceva a Dante e all’equivoca gara con la Divina Commedia nella Bassvilliana) vede la possibilità di sfrenare il suo impeto immaginoso e sonoro, di superare i limiti impostigli dalla misura del sonetto anche se minzonianamente atteggiato al grandioso, di spaziare col suo fervore descrittivo-visionario in superfici illimitate e pronte a riempirsi delle volute ampie, delle figure colorite, dei gesti enfatici, delle prestigiose apparizioni spettrali a cui la sua immaginazione tendeva, in accordo piú o meno esplicito con alcune equivoche condizioni dell’ultimo Settecento aspirante alla grande poesia dopo il gusto illuministico classicistico (vòlto al chiaro, al sensibile, all’elegante), e preso fra la spinta preromantica vera e propria e certe forme dello stesso neoclassicismo (Mazza, Rezzonico) scontento del miniaturismo e teso a quel «fare grande» che del resto, attraverso il Frugoni, riprendeva le velleità piú laterali dello stesso periodo arcadico (Guidi, Filicaia ecc.).

Con la maniera delle visioni (meglio che con quella dei capitoli o delle canzonette e dei poemetti galanti, in cui pure egli mostrava certe sue tendenze: il Monti piú che un nucleo saldo e unitario presenta, sin dai suoi inizi, un raggio di «disposizioni» poetiche e una generale disponibilità d’immaginazione e d’orecchio, pronta e del resto desiderosa di mostrarsi «bonne à tout faire») il giovane scrittore, riprendendo l’eredità locale piú illustre e, a suo modo, piú originale, la arricchiva delle proprie qualità di decoro e di abbondanza di colore e di suono. Era un incontro fra una sua tendenza istintiva e le forme di una poesia che corrispondeva (ma nel Varano cosí sfocate eran le tinte e le figure, cosí confuso e spesso prosastico il timbro ed il ritmo) ad un desiderio di poesia «grande» a suo modo «moderna», perché non basata sulla mitologia pagana, e a questa sostituente figure e vicende delle leggende cattoliche, e quindi anche, oltre tutto, gradita specie nei centri culturali dello Stato pontificio, a Roma, a cui il giovane letterato guardava come alla scena vasta su cui avrebbe potuto mostrare le sue eccezionali doti personali. Perché non va dimenticato, disegnando brevemente la storia della formazione montiana, come il cammino dell’apprendista poeta si intrecci con quello del giovane sprovvisto di mezzi di fortuna (padre e fratelli non facevano che minacciarlo di tagliargli i viveri e magari di diseredarlo se avesse continuato a dissipare il suo tempo nella poesia) e avido perciò di procurarsi con i suoi versi doni generosi e protezioni potenti: sicché la sua attività poetica, mentre è legata ad una acquisizione rapida di tecnica e di tecniche e ad un ampliarsi di esperienze letterarie (fra il desiderio di eccellere in tutte le «maniere» contemporanee e quello di avere una propria maniera personale), si accompagna ad un diplomatico ampliarsi e arricchirsi del cerchio delle conoscenze di letterati (da Ferrara agli altri centri emiliani, a Roma) e di personaggi illustri, possibili mecenati e introduttori presso altri potenti piú alti: e di questa storia fra gustosa e penosa, a volte, sono un documento interessante le lettere di quegli anni, interessanti anche per una prima formazione della prosa montiana tra forme di ossequio convenzionale ed espressioni piú immediate e rivelatrici di un temperamento tutt’altro che privo di umori e di vitalità[11].

Le Visioni (quella di Ezechiello, quella al cardinale Calcagnini del ’76, quella al barone di Erthal del ’77, quella al Thunn, vescovo di Trento, del ’78[12]) costituiscono un’esperienza indubbiamente importante nella formazione del Monti e precisano una delle sue tendenze fondamentali, ben rilevate proprio nella prima visione, in cui la poetica dell’entusiasmo del vedere e del far vedere scene grandiose e inattese (quindi con bruschi cambiamenti di scena, con paesaggi in movimento e in tensione e con la risoluzione di ogni elemento sentimentale in immagine colorita e articolata, in gesto eloquente e sonoro) si presenta nella sua piú vistosa immediatezza, resa esplicita persino nel ricorrere frequente del «vidi» tematico ad apertura delle grandiose e terribili scene evocate. Ché – senza l’inquietudine del Varano (Monti, come ho detto, svolge i temi e i moduli varaniani in forme piú fluenti, in linee ricche di immagini visive e sonore, risolvendo in un linguaggio piú sontuoso e succolento quello piú slegato e smorto del modello) – prevalgono nella prima visione, piú vicina al modello, scene lugubri e grandiose, come quella del riprender carne da parte di un gruppo di scheletri, in cui – a parte certe goffaggini piú che evidenti – colpisce già l’abilità prestigiosa del Monti nel muovere la sua scena, nell’adeguare la rapidità di un occhio fervido e instancabile in un vedere fantastico e spettacolare

(Tacque: e tosto un bisbiglio, un brulichio

ed un cozzar di crani e di mascelle

e di logore tibie allor s’udio.

Già tu le vedi frettolose e snelle

ricercarsi a vicenda, e insiem legarne

le congiunture, e vincolarsi in quelle.

Vedi su l’ossa risalir la carne,

intumidirsi il ventre, e il corpo tutto

di liscia pelle ricoperto andarne...),

l’indimenticabile piglio con cui si succedono scene e figure e si aprono enfatiche e sonanti visioni di orrore o di estasi accomunate dalla monumentalità spettacolare e dall’entusiasmo dell’effetto, sulla via che condurrà fra pochi anni alla splendente fantasmagoria della creazione – pur cosí discutibile quanto a vera e organica poesia –, nella Bellezza dell’Universo:

Io timido mi stava e stupefatto

all’oggetto feral: quando spiccossi

un lampo, e corse per l’immenso tratto.

Tremò del ciel la porta, e spalancossi:

s’incurvâr rispettosi i firmamenti:

e dalle sfere un cherubin calossi.

Volò su le robuste ale de’ venti.

Carche di foco e fumo avea le spalle

e un cerchio in fronte di carboni ardenti.

Venia rotando per l’etereo calle

di baleni una pioggia; e ritto alfine

fermossi in mezzo alla tremenda valle...

Nel Monti, rispetto al Varano, si nota poi quel nativo gusto di alternare (anche senza ragioni profonde) quadri oscuri e quadri luminosi (e lo stesso «scuro» ha in lui una sua lucentezza, una patina smagliante), impeti energici e distensioni rapite (in certo senso la tendenza alla piacevole mescolanza del forte e del delicato, di cui parlò il Foscolo), ed anzi, nelle visioni successive, i quadri tetri, l’orrore, divengono sempre piú una pura base di contrasto di colore e (specie nella terza e quarta – la seconda visione è del resto di gran lunga la piú insignificante e divagata) la funzione moralistica e religiosa che avevano nel Varano va del tutto perduta entro una ricerca di spettacoli immaginosi a cui le occasioni (l’elogio del committente, del protettore) danno spunto senza apportare (come avverrà invece per le occasioni storiche dei poemi legati ad avvenimenti contemporanei) particolari condizioni di tema e di sviluppo.

Prevale il gusto del «vedere» e «far vedere», un impegno di decorazione pittorica e musicale abbondante e varia; e, sul filo della visione, si collegano tentativi di quadri di diversa intonazione[13], esperienze di colori e di figure, mentre si aggiunge la lenta acquisizione di una nuova maniera e di una nuova tematica, di cui il primo affiorare si avverte già nell’inizio della visione per il Calcagnini, dove s’invoca «la fantasia patetica, che gode / recarsi in parti taciturne e sole», nelle quali poi si incontra «il romito silenzio, onde su l’alma / la pace malinconica scendea».

Il giovane letterato veniva ora a conoscenza della maniera preromantica e tendeva ad impadronirsene risolvendola nelle proprie fondamentali direzioni immaginose e sonore, innestando alla poetica dell’entusiasmo del «vedere» e del «far vedere» quella dell’entusiasmo del «sentire» e del «far sentire». Non si tratta di una brusca irruzione sentimentale, di una scoperta turbatrice di un senso nuovo della natura e della realtà interiore (e del resto il preromanticismo italiano di quegli anni – mancava ancora la presenza innovatrice dell’Alfieri maturo e del Foscolo ortisiano – offriva già indizi di soluzioni di compromesso fra nuovi sentimenti e gusto tradizionale), ché oltre tutto, solo piú tardi, in pieno periodo romano, il Monti farà una piú diretta esperienza preromantica (cercando persino di sorreggerne l’espressione poetica con una vicenda biografica alla Werther) ed ora invece si tratta di un echeggiamento piú facile ed esterno, anche se interessante per l’estrema abilità con cui il Monti mostra di risolverlo in forme piú fluenti e immaginose, nelle tre elegie e nell’Entusiasmo malinconico del ’78, l’ultimo anno del soggiorno ferrarese.

Si prenda l’inizio della prima Elegia[14]

(Or son pur solo; e in queste selve amiche

non v’è chi ascolti i miei lugubri accenti

altro che i tronchi delle piante antiche.

Flebile fra le tetre ombre dolenti

regna il silenzio, e a lagrimar m’invoglia

rotto dal cupo mormorio de’ venti.

Qui dunque posso piangere a mia voglia,

qui posso lamentarmi e alla fedele

foresta confidar l’alta mia doglia),

o l’inizio di quell’Entusiasmo malinconico, il cui stesso titolo è cosí significativo per questa poetica dell’entusiasmo[15] (entusiasmo della visione, entusiasmo della malinconia):

Dolce de’ mali oblio, dolce dell’alma

conforto, se le cure egre talvolta

van de’ pensieri a intorbidar la calma,

o cara Solitudine, una volta

a sollevar deh! vieni i miei tormenti

tutta nel velo della notte avvolta,

te chiamano le amiche ombre dolenti

di questa selva, e i placidi sospiri

tra fronda e fronda de’ nascosti venti.

Sei tu forse che intorno a me t’aggiri,

e simile alle fioche aure del bosco

il tuo furor patetico m’inspiri.

Sí, tu sei dessa. Il tuo sembiante fosco

risvegliator di lagrimosi carmi,

io mi veggo su gli occhi, io lo conosco.

Piú che la capacità di approfondire, di far vibrare poeticamente un sentimento, c’è qui la particolare capacità di costruire una scena «malinconica» affascinante e sicura, di adornarla di coerenti immagini e figure, piacevolmente languide, di adattarle una cadenza armoniosamente patetica. E tutto, rispetto ai testi preromantici piú sofferti, appare qui risolto in un fare piú chiaro, evidente, efficace, ricco di suoni e di immagini, soprattutto disinvolto e agevole (disinvoltura che testimonia, oltre ad una tendenza montiana di spontaneità anche troppo facile, poco profonda, un indubbio possesso accresciuto di mezzi espressivi: e se il giovane veniva provando varie «maniere», queste varie esperienze implicavano, oltre ad un acquisto di abilità nelle singole direzioni, una generale maturazione di sicurezza tecnica, di prontezza e scioltezza del discorso poetico), tanto sicuro e fluido che l’attenzione del lettore non si ferma sulla novità dei temi e toni preromantici (per lo piú temi ossianeschi, amalgamati del resto abilmente con echi dell’elegia classica latina e con riflessi di linguaggio melodrammatico metastasiano), attratto da quell’onda sonora e immaginosa piacevolmente patetica, in cui la malinconia è non la forma di una sofferenza interiore, ma soprattutto l’oggetto di un «entusiasmo» che reagisce ad ogni tema con il suo fervore di colori, di suoni, di immagini ricche ed efficaci, vòlte ad amplificare (non approfondire), in questo caso, anche i sentimenti del dolore e della malinconia, piuttosto accettati da una moda, che non profondamente assimilati da un sentimento del proprio tempo.


1 Uno scolaro del Monti classicista e conservatore, lo Zajotti, poté, dal suo punto di vista, vedere in quella prima educazione familiare solo un’idilliaca e pia scuola di affetti umani e religiosi, di fedeltà alla tradizione non solo letteraria.

2 In Opere, Bologna, ed. naz. XVIII, 1944. Questi primi documenti dell’attività montiana si trovano raccolti nello scritto di L. Cambini, Primi saggi poetici di Vincenzo Monti, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1909, alcuni anche in Poesie liriche di Vincenzo Monti, a cura di G. Carducci, Firenze 1858.

3 Di Giuditta.

4 Vincenzo Monti, Epistolario, a cura di A. Bertoldi, Firenze 1927-1930, I, p. 13.

5 Epistolario cit., I, p. 19.

6 Epistolario cit., I, p. 20. E in una lettera al padre, che lo accusava di perdere il suo tempo con la poesia, il giovane Monti opponeva trionfalmente l’estrema facilità con cui produceva sonetti, tanto che in un solo giorno ne aveva scritti ben dieci (e ben remunerati) per l’elezione di un signore al consiglio dei savi di Ferrara (Epistolario cit., I, p. 8).

7 Significativo, per ciò che ci dice della tendenza del gusto del Monti, è l’elogio che egli rivolse appunto al Mazza in una lettera del 1777 (Epistolario cit., I, p. 38): «Tutti i vostri componimenti si distinguono da quelli degli altri e per forza di fantasia, e per immagini, e assai piú per quel vivo colorito, che anima le cose ancor piú minute, e caratterizza il poeta che crea ed ingrandisce gli oggetti».

8 In Poesie liriche, a cura del Carducci cit., pp. 8-10.

9 Con quel piglio energico (e un po’ romagnolo-romanesco) che si ritrova anche in aneddoti della vita del Monti o in certe sue improvvisazioni impetuose ed efficaci. Come quella, in un salotto milanese, con cui ruppe gl’indugi dell’improvvisatore Sgricci che, sul tema dei begli occhi di una bella dama, ripeteva «Vorrei cantar quegli occhi» senza riuscire a proseguire. E il Monti completò fra sdegnato e ridente: «E canta anche i ginocchi, / le labbra, il seno e il resto, / pur che ti sbrighi presto».

10 Cosí piacevolmente descrive la sua solitudine nel brutto paese e in seno alla famiglia bigotta: «Le donne poi, ché fede io posso farne, / han le sembianze sí bizzarre e brutte / e cosí rancia e ruvida la carne; / che non v’è rischio che giammai corrutte / sien le caste mie voglie e ch’io le tocchi, / se fossi peggio ancor di Ferrautte. / Passo i giorni illibati; e come giglio / la coscienza ho bianca; e se il volessi, / non saprei come porla in iscompiglio. / Lunghe le orazion, devoti e spessi / i digiuni: e cosí fo che s’emende / ogni grave peccato ch’io commessi. / Sto sempre in casa; e intanto, o che s’imprende / a dir dei salmi o che della Madonna / la coroncina dalle man mi pende... / Le Muse al mio pregar avverse e sorde / van lungi, ché malarsi hanno paura / su queste sponde pestilenti e lorde».

11 Anzi alcune lettere ferraresi e poi molte del periodo romano, in relazioni piú libere dall’ossequio ai potenti, sono la prima base di quella prosa montiana della Proposta e degli scritti piú tardi, cosí ricchi di movimenti polemici, di ironia, di efficacia, di franca schiettezza personale. In genere si può dire che la conquista di una prosa fu nel Monti un’esigenza piú matura e tardiva rispetto all’istinto e alla ricerca della esperienza in versi.

12 Si trovano tutte nel primo volume dei Canti e poemi, a cura del Carducci, Firenze 1862.

13 Scene idilliche e colori tenui legati a sentimenti di poetica evasione, come all’inizio della visione per il D’Erthal: «Io d’Elicona abitator tranquillo, / solo del rezzo d’un allôr contento / e d’un fonte che dolce abbia il zampillo, / non mi rattristo se per me non sento / muggir mille giovenche e la campagna / rotta non va da cento aratri e cento. / Non mi cal che di Francia o di Bretagna / sul lido american prevaglia il fato / e che tutta di guerre arda Lamagna. / Cerco sol che non sia meco sdegnato / Apollo, e tempri colle rosee dita / la non vil cetra che mi pende a lato; / né questa mi contenda ombra romita / né questa erbetta dal corrente umore / e dall’aura d’april scossa e nudrita...». Questo moto di evasione nella poesia tornerà poi piú volte nel Monti a contatto con avvenimenti che lo impauriscono e con la delusione dei “piani” dei suoi poemi sconvolti da una piega non preveduta delle vicende belliche – ma esso qui vale – entro un ambito di esperienze letterarie piú che veramente sentimentali – soprattutto in funzione di una maniera e di un tema letterario da sperimentare.

14 In Poesie liriche cit., p. 131.

15 Si ricordi che in quegli anni, fra illuminismo e preromanticismo, la nozione di “entusiasmo” era diffusissima e il Bettinelli (v. capitolo relativo nel mio Preromanticismo italiano, Napoli 1947, Bari 19743) vi basava il suo esame della poesia e delle «belle arti».